2.3. PRONUNCIA E GRAFIA

 

 

In assenza di tradizione scritta ben consolidata (dato l’ambito geografico estremamente limitatato della ricerca) è difficile trovare delle regole soddisfacenti per riportare in modo fedele ma nel contempo semplice la pronuncia del dialetto di Chiuro e Castionetto, senza cadere da un lato nell’ambiguità, soprattutto per il lettore che non conosce già la parlata dialettale, dall’altro in un appesantimento dello scritto (che potrebbe derivare, ad esempio, dall’uso di trascrizioni fonetiche come quella IPA, peraltro fuori dalla portata di semplici appassionati non specialisti). Inoltre, una certa variabilità nella pronuncia delle singole parole sia a livello di contrada o famiglia, sia addirittura a livello personale (senza che si possa legittimamente parlare di errore), è così frequente che a volte è difficile scegliere la pronuncia “autentica” o riportare esaurientemente tutta la casistica. D’altro canto, il dialetto di Chiuro e Castionetto, a differenza di quelli di altri paesi valtellinesi, non pare presentare spesso vocali dal suono intermedio o indistinto, vocali chiaramente lunghe o altre peculiarità. Questi motivi hanno dettato le scelte adottate e illustrate nel seguito, per le quali si è privilegiata l’essenzialità, anche a costo di una certa semplificazione.[1]

 

I segni grafici sono quelli della lingua italiana; non si fa uso, ad esempio, della “k” per indicare il suono duro della “c” o della “j” per distinguere la “i” semiconsonantica o per riprodurre la “c” dolce davanti a vocali diverse da “i” ed “e”.

È sembrato più appropriato non utilizzare mai parole con le doppie, né per le consonanti, né per le vocali.

La “u” lombarda presenta la dieresi (ü). La dieresi (ö) è usata anche per il suono reso con “eu” in francese.

Si adottano le regole dell’italiano per le parole che terminano in “c”, seguendo questa norma: “c” per “c” dolce (come nelle parole italiane cima, cesto, dolce): làc; “ch” per il suono duro (come nell’italiano chiave, cono): sèch. Quando la “c” compare all’interno della parola, si segue la norma dell’italiano: bachèt (“c” dura), cialàda (“c” dolce).

Ricalca l’italiano anche il gruppo “sc”, che è pronunciato come nelle parole scena, scienza, sciocco quando è seguito da “e” e “i”, oppure è in posizione finale (ad esempio sciàt, pelórsc); quando invece è seguito dalle altre vocali o da consonanti si pronuncia con suono duro: scatà. Il suono duro davanti a “i” e “e” e in posizione finale si forma, come in italiano, con la “h”: schifùs, schersà, busch. La “s” apostrofata, seguita da “ci” e “ce” si pronuncia sibilante e palatale: s’cèt, s’ciàf, s’ciòp.

 

È frequente il caso di parole, specialmente verbi, che hanno una consonante finale dal suono impercettibile ed incerto tra le lettere “t” o “d” (fenomeno noto come desonorizzazione delle consonanti finali).

 

Nella resa grafica si propende per la “t” che sembra prevalere, anche se nella coniugazione dei verbi riaffiora la “d”: pèrt, pént e pendéva, perdǜt.

 

Inoltre, si rileva spesso un suono ambiguo tra “gn” e “n”, specie in fine di parola e quando preceduto da “i” o “u”.

 

Normalmente si è scritto -gn: malógn, agn, giǜgn sapendo che può essere legittimamente letto come -gn, -n o un suono intermedio fra i due; per il pronome “noi” è sembrato più fedele al suono comune nün e non nügn.

 

In tutta la Valtellina la lettera “v” ha un suono sfumato ed evanescente, non è mai pronunciata apertamente e con chiarezza come nella lingua italiana. Il fenomeno è particolarmente evidente quando troviamo l’incontro “v” ed “u” tanto che in qualche parola la “v” è scomparsa, completamente assorbita dalla vocale vicina (laurà).

Analogamente la confusione tra “s” e “z” è tipica di tutte le parlate valtellinesi, specie nei casi “rs/rz”, “ls/lz”, “ns/nz”.

 

Il vocabolario riporta normalmente la “v”: cavà, vìgna, vit; il lettore si regolerà opportunamente per la miglior pronuncia. Si è evitato anche l’artificio di mettere quella “v” tra parentesi, come si vede in qualche testo. Solo per parole molto usate, come vultà/ultà, vusà/usà sono state riportate le due varianti come due lemmi distinti, con la traduzione e la descrizione del termine nella lettera che sembra prevalere, il rimando nell’altra possibilità.

Per l’alternativa tra “s” e “z”, normalmente si è optato per la lettera “s”.

 

Casi analoghi, in cui la distinzione fra due suoni è sfumata, sono quelli delle parole che iniziano con in- o en- (in cui oltretutto nella lingua parlata quasi sempre cade la vocale iniziale – vedi nota sotto la lettera E), di alcune che iniziano con ri- o re- (rifà o refà), con stra- o stre- (stratémp o stretémp) e ancora di altre che terminano con -it o -et (àcit o àcet), -il o -el (inǜtil o inǜtel).

 

Solo per parole molto usate sono state riportate le due varianti come due lemmi distinti, con la traduzione e la descrizione del termine nella lettera che sembra prevalere, il rimando nell’altra possibilità.

 

Accanto alle regole sopra descritte, che valgono in ogni caso, per i lemmi si è preferito una forma più particolareggiata che possa essere utile per riprodurre in modo più fedele possibile la pronuncia.

La “e” aperta e chiusa è differenziata grazie all’uso del corsivo: “e” per quella aperta,eper quella chiusa; quando poi la parola è accentata, come spesso capita, la differenziazione viene amplificata dall’accento grave (è) o acuto (é).

La stessa regola vale per la “o”: “o” aperta  edochiusa (se accentate ò e ó, rispettivamente, con accento grave e acuto).

La consonante “s” è indicata col corsivosquando è sonora (come nell’italiano rosa), come nelle parole sbàt, lüsì, ca, cata, casìna (piccola casa); col segno normale “s” quando il suono è sordo (come nell’italiano santo): lasà, savé, saùn, casèta (delle mele), casìna (nelle baite sui monti).

La stessa norma vale per la lettera “z”: corsivoznel suono dolce ( o sonoro) (come nella voci italiane zero, zanzara); “z” normale quando il suono è aspro ( o sordo) (come in vizio, calza). Così si avrà zàpa e zìu.

Nei lemmi, inoltre, è sempre indicato l’accento tonico anche sulla parola piana e sui monosillabi (ad eccezione di congiunzioni, articoli, preposizioni, pronomi proclitici). Ovviamente per la “o” e la “e” si differenzia l’accento grave dall’acuto, anche se a rigore non è indispensabile perché, come detto sopra, già la grafia differenzia i due casi è-é  ò-ó.

 

Viceversa, nelle frasi di esempio, idiomatiche, proverbi etc. all’interno della descrizione della voce, l’accento compare di norma su tutte le parole plurisillabe. I monosillabi, che aumentano molto rispetto ai lemmi per l’apporto di tante voci verbali, seguono questa regola: sempre accentate è-é e  ò-ó tranne che in articoli, preposizioni, congiunzioni ed atone; senza accento le altre vocali, salvo le forme del verbo avere ù, à, ì e l’avverbio . Si avrà così: ciapà la ràbgia, ù ramàt scià en sach de ratatùia, rampegà sü en de 'n piré, raspà gió 'l tarài de la pulénta, i garsö́i i è amù rebütàt,  l'ǜltima rö́da del car, n' ó fac 'na sbedenàda a tirà gió quéla grö́va, etc.

 

 



[1] Solo a stesura ormai completa del vocabolario è apparso sul Bollettino storico Alta Valtellina, n.6 anno 2003, p. 195-297, l’articolo di Jørgen Giorgio Bosoni “Una proposta di grafia unificata per le varietà linguistiche lombarde: regole per la trascrizione” che avrebbe potuto, almeno in parte, costituire una guida in queste scelte.